13 ottobre 2009

23 agosto 2009 - Ouidah, ultimo giorno: quello della paranoia

È domenica e, quando abbiamo finito di fare colazione e scendiamo, la maggior parte degli abitanti della Maison de la Joie è già a messa. Così contiamo di bissare la giornata di ieri: relax e buon cibo alla Casa del Papa.
Non ci fosse questa maledetta sensazione di malessere. Saranno le nove e mezza, il sole non è ancora alto ma io sudo come in una sauna. Forse ho anche mal di pancia. E cammino. Mi sento Aschenbach? Sì, col cavolo. Lui è un “von”, un esteta in una Venezia bella da morirne; io una cretina in giro per strade polverose, che oggi trovo pure puzzolenti: gli odori del cibo mi colpiscono come sferzate. Sto male. Male come? Non so. Male, comunque. Ho un solo obiettivo: arrivare fino ai giardini del Fort Français e sedermi. Quando finalmente li raggiungo in effetti non mi siedo, mi corico. E ho una quasi-certezza: ho la malaria. Dio che palle, mi lasceranno partire? E, nel caso, ce la farò a portare la nipotina al mare o dovremo rinunciare? Accidenti quanto sudo.
“Va meglio?” chiede Carlo. No, cazzo, non va niente meglio, direi che va peggio invece. Forse perché fa più caldo. Dico a Carlo che non ce la fo, non ce la posso fare: torno a casa, ma lui, se vuole, può andare in spiaggia ugualmente. Il mio amore si carica pure il mio zainetto e rientriamo. Mi sembra di correre e di barcollare insieme e, all’arrivo, mi schianto sul letto con un Dolipran. A parte un momento, non so quanto lungo, in cui perdo conoscenza, per il resto sono a letto e sveglia. Spompata come non mai. Ascolto Carlito, i bimbi, Justine che conferma al mio amore che i miei sintomi sono quelli della malaria. Confesso che un po’ panico: non mi lasceranno mai partire. Poi prendo la saggia decisione di isolarmi qualche ora dal mondo grazie all’iPod e quando, verso le sei di sera, arrivano Marie e Kemi a festeggiare nel mio letto va meglio. Decisamente meglio.
Ora lo so: partirò. Ed è lo strazio di lasciare la Maison, i bambini (con François che chiede 1000 volte quando torniamo. Non lo so, cucciolo mio, non lo so, potrebbe pure essere mai. Ma non ho voglia di dirlo e, se è per questo, neppure di pensarlo). Marie si attacca al collo di Carlo e non vuole lasciarlo andare. François bacia il finestrino dietro il quale mi nascondo. L’auto parte; Justine, per fortuna, parla senza sosta. Io cerco di gestire il male (che malaria, poi, non sarà) e la pena. Non voglio che sia un addio, non ce la posso fare.



(nella foto: statua vudù nella foresta sacra, Ouidah)

09 ottobre 2009

22 agosto 2009 - Ouidah - Bella gente

A Ouidah ci manca da vedere ancora almeno una cosa: il Tempio dei Pitoni. Così Carlito e io ci incam- miniamo alla scoperta della città, finalmente a passo d’uomo. Ci si svela così il fatto che dalla Maison de la Joie si può tranquillamente raggiungere il centro a piedi. Facciamo una pausa per consultare la cartina ai giardinetti detti “Fort français” che, evidentemente, hanno preso il posto del forte distrutto.
La visita al tempio non sarà fondamentale ma completa il quadro vudù: l’iroko (l’albero sacro) all’ingresso è parzialmente coperto da un telo sacrificale che ha assunto l’aspetto di un quadro di Pollock. Poi tempietti sparsi, “tutti abitati da divinità” ci assicura la guida “e proibiti ai profani” e il tempio dove vivono una quarantina di pitoni. Li tocchiamo, Carlito se ne fa mettere uno al collo, poi li lasciamo a scaldarsi attorcigliati tra loro. La sera del giorno in cui si svolge il mercato la porta del Tempio dei Pitoni viene lasciata aperta in modo che i serpenti possano uscire in cerca di cibo. In genere i pitoni rientrano, ma quelli smarriti vengono recuperati dalla popolazione e riportati alla loro casa comune. Secondo la guida pure Angélique Kidjo è stata a pregare in uno di questi templi per chiedere la grazia di avere un figlio.
Usciamo dal tempio e affrontiamo una lunga camminata per arrivare alla Maison du Brésil, dove compro ancora tre braccialetti, poi scoviamo uno zem (moto-taxi, per intero zemidjan) che per 1500 franchi ci porta fino alla Casa del Papa, a 5-6 km dalla Porta di Non-ritorno lungo la Route des Pêches. Alla Casa consumiamo il miglior pasto del Benin: carpaccio di cernia e filetto di spigola al coriandolo. Poi relax ed etologia da bar: passiamo un mucchio di tempo a studiare il comportamento di due granchi in riva all’Oceano. Già mi manca Ouidah e ancora non siamo partiti: spesso la magia dei luoghi è in realtà quella delle persone.


(nella foto: l'iroko-Pollock, Tempio dei Pitoni, Ouidah)
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