19 maggio 2009

16 ottobre 2004 - Pechino, la città proibita e Tiananmen

Di fronte all’ingresso della città proibita Carlito e io siamo talmente confusi che finiamo per entrare dalla destra e perderci in una specie di luna park nel "People’s Culture Park". I giardini, a dire il vero, non sarebbero neanche male, il problema è che sono occupati da una fiera e da un congresso per la promozione dell’uso dello studio delle lingue straniere in Cina. Alla fine si parla dell’inglese e, come è normale a questo punto, in inglese. Liberatici dagli anglofili, riusciamo a guadagnare l’ingresso alla Città proibita che, con tutta la sua maestà, i suoi palazzi rossi, i suoi tetti gialli e i suoi magnifici soffitti dipinti in verde, blu e oro, è una delusione. Non so perché non dà affatto l’impressione di camminare nella storia, come accade invece all’acropoli o al foro romano o a Pagan. Intanto non si ha accesso ai palazzi per cui si indovina quel che si può dall’esterno. Per di più la quantità di turisti presenti è spaventosa. Sono quasi tutti in gruppo e quasi tutti cinesi, ma, indipendentemente dalla nazionalità, ogni volta che una porta o una finestra offre uno spiraglio sull’interno la calca è assicurata. Una delle cose più carine sono gli angoli del tetto del Palazzo della Purezza celeste, ovvero delle stanze dell’imperatore (mi pare sia quel tetto): gli antichi cinesi credevano che i fulmini colpissero le case negli angoli perciò li proteggevano con una serie di figurine in processione, draghi, leoni alati e animaletti più o meno mitologici vari, capitanati da un uomo a cavallo di una gallina. L’uomo in questione sarebbe la rappresentazione di un imperatore (forse) particolarmente malvagio che sarebbe stato impiccato al tetto. In un certo senso si tratta di un amuleto deterrente.
Anche la camera da letto dell’imperatrice attira per qualche istante la mia attenzione, se non altro per l’ideogramma della doppia felicità (nella foto) o della coppia. Dipinto in oro nella camera nuziale dell’imperatrice (pareti e porte rosse, alcune spose tuttora vestono in rosso per la cerimonia) e ancora oggi usato in qualche matrimonio. Tutti i cinesi che passano davanti alle porte dipinte con questo ideogramma in oro vi passano sopra le mani, tanto che ormai l’oro è quasi completamente scomparso. Inutile aggiungere che lo faccio anch’io.
Un po’ di tranquillità e anche un pizzico di atmosfera in più nei Giardini imperiali, con le solite formazioni rocciose, i padiglioni, la finta collina da cui l’Imperatore e l’Imperatrice si affacciavano a contemplare il loro mondo e il bellissimo acciotolato: un mosaico di sassolini che creano i disegni più delicati e complessi. Oltre agli alberi, naturalmente. Proprio all’ingresso del giardino due alberi intrecciati sono un simbolo di fedeltà, davanti al quale moltissimi cinesi si fanno fotografare.
Quando lasciamo la Città Proibita sono le due passate e decidiamo di andare a mangiare in un posticino in Dazhilan Jie. Il taxista ci lascia all’ingresso di un hutong, caratteristica via pechinese, commerciale. La parte est, pedonale, è praticamente un gigantesco mercato, con alcuni negozi bellissimi (le costruzioni, non tanto le merci). Il posto che cerchiamo si trova comunque nella parte ovest (al n° 37 della parte est c’è un negozio di coltelli e quando ci arriviamo io vengo presa da un senso di sconforto e penso che il “mio” ristorante abbia ormai fermato i battenti). Quando arriviamo al Tianhai Hostal ho comunque qualche perplessità: la Lonely Planet lo descrive benissimo, il grammofono in un angolo del banco, i serpenti sottovetro sempre sul bancone e le foto in bianco e nero della vecchia Pechino alle pareti. Quello che dimentica sono la polvere, la sporcizia e gli scarafaggi. Che, a prima vista, non contribuiscono certo a quella che la guida chiama “un’atmosfera fantastica”. Eppure. Eppure entriamo e ordiniamo da bere e da mangiare. Il cibo è più che buono, la birra la Yuan Yiin o qualcosa del genere che io preferisco alla onnipresente Tsin Tao. Per di più l’unico altro avventore presente, un ciccione che beve tè ipnotizzato da una sorta di telenovela cinese (a proposito: schermo anche qui) si rivela essere un eccellente fotografo. Ci mostra alcuni suoi scatti in bianco e nero davvero belli. Ci intendiamo a gesti e ci facciamo delle matte risate. Anche lui, come il taxista che ci ha portato fin qui, si diverte un mucchio quando scopre che siamo italiani. Ripete “Idaly, Idaly”, scuote la testa in cenno di assenso e giù una risata.
Veloce passaggio ancora a Dazhilan e poi taxi per il Jingshan Park, il parco della collina che domina la Città proibita. Vorremmo arrivare in cima per contemplare il tramonto sui tetti gialli che il sole morente tinge d’oro. La vista è bellissima ma la solita foschia rende il tramonto insignificante, cioè inesistente.
Scendiamo e costeggiamo tutta la cinta muraria della Città proibita per raggiungere piazza Tiananmen. A Pechino le distanze sono mostruose: camminare in questa città è un suicidio, ma detesto prendere i risciò e taxi lungo la strada proprio non se ne vedono. Comunque sconsiglierei vivamente di muoversi a piedi per Pechino, mentre camminare a Shanghai può essere molto molto piacevole.
A piazza Tiananmen scopro i messaggi di Angelina che ci dà appuntamento al Novotel Peace Beijing per le 19.15. Praticamente è già ora di proseguire e, strano a dirsi, per una volta i nostri eroi, Véro, Angel e Arnaud, sono puntuali. La ragione è presto detta: il ristorante che hanno scelto, specialità anitra alla pechinese, termina il servizio alle 20.30. Il nostro tassista non sa manco dove si trovi, quindi segue il taxi dei francesi e ogni tanto compie acrobazie nel traffico. Comunque arriviamo sani e salvi nel quartiere di Qianmen. Fuori dal ristorante ci attende una lunga coda dove mi pare che i turisti siano più numerosi dei cinesi. Ma è quasi un fifty fifty. In compenso c’è una folla di mendicanti, come finora in Cina non ne avevamo incontrate, che chiedono soldi, ti tirano, ti toccano, ti supplicano. Il locale è una specie di mensa. Pavimenti appiccicosi e tavolacci. Non c’è scelta: solo menu anatra alla pechinese. Così Angelina, che è vegetariana, si deve accontentare di due piattini di verdure fredde che non hanno l’aria granché invitante. In effetti servono praticamente solo la pelle dell'anatra, quindi ci facciamo le nostre crêpes abbastanza goduti. Véro, per di più, non le ha mai mangiate e per lei è una vera festa.
Terminiamo la serata al bar del Novotel, dove dormono Angelina & co. e qui il nostro viaggio in Cina si conclude con un intermezzo assai poco cinese. Nella hall appaiono Jean-Michel Jarre, in Cina per il megaconcerto di apertura dell’anno della Francia in Cina, e la sua nuova compagna, Anne Parillaud. Angél, che di Jarre se ne frega, decide che il suo diario di viaggio sarebbe comunque nobilitato da un autografo e mi chiede di accompagnarla. Arnaud, vigliacco, ne approfitta per fare una foto a tutti e tre (la terza sono io, visto che la Parillaud si è defilata appena messo piede nella hall dell’hotel), così mi ritrovo a Pechino immortalata, si fa per dire, con Jarre. E mi domando: ma cazzo c’entra con la Cina?

12 maggio 2009

15 ottobre 2004 - Pechino e la Grande Muraglia

Si parte tardi, alle 11 passate, destina- zione Mutian Yu. Sul pullmino che ci passa a prendere al Jianguo ci sono già tre australiani che hanno appena fatto amicizia. Due di loro, Simon e la fidanzata, sono di origine cantonese. Simon, poi, ha studiato anche il mandarino a Singapore ed è una vera miniera di informazioni.
Per raggiungere Mutian Yu impieghiamo circa un’ora e mezza. Il calcolo del tempo è molto approssimativo perché ci fermiamo a mangiare lungo la strada. Kevin, la nostra guida, che in effetti non sa granché, è un soggetto da urlo. Prima volta che saliva a piedi sulla Grande Muraglia (di solito prende il cable car, ovvero la funivia). Ci tiene molto al fatto che andiamo a pranzare prima di andare alla Muraglia. Per essere in forze, dice lui, per attirarci nella solita farm, pensiamo noi. In questo caso si tratta di cloison, tecnica antica di pittura sul rame.
Raggiungere la muraglia anche a piedi è abbastanza agevole: in sostanza si tratta di salire una serie di scale. Una volta in cima lo spettacolo è mozzafiato: il deserto dei Tartari non ha mai raggiunto significato più pieno. Guardo tra un merlo e un altro della Grande Muraglia (nella foto) e vedo montagne, alberi, ancora muraglia e torri di guardia. In effetti mai panorama violato dall’uomo mi è sembrato così grandioso. E così armonioso insieme. La Muraglia è sì un’immensa ferita nella terra - originariamente circa 10 mila chilometri, oggi più o meno 6 mila - ma, al tempo stesso, sembra conferire nobiltà al paesaggio. Kevin ci dice che un milione di uomini hanno lavorato alla costruzione di questa meraviglia (che per la verità è stata costruita e ricostruita più volte nel corso del tempo) e che uno dei nomi con i quali è conosciuta è “il più lungo cimitero vivente”. In ogni caso è facile passare ore a camminare su e giù lungo questo immenso, favoloso muro.
Al ritorno il percorso è più lungo (non per scendere, ché, anzi, si va davvero rapidi, quanto per il rientro in città): ci mettiamo un po’ più di due ore. È vero anche che ci perdiamo, causa lavori in corso e deviazione imprevista. Ma il vero handicap è il traffico che, a Pechino come a Shanghai, è pazzesco. Anche Pechino, tra l’altro, puzza ed è mostruosamente inquinata.
A cena abbiamo prenotato (bè, ovviamente abbiamo fatto prenotare) al CourtYard per le 20.30. Usciamo un po’ in ritardo, alle 20.05, ma abbiamo solo quattro fermate di metro: da Yong An Li a Tienanmen Dong. Poi si dovrebbe poter raggiungere il ristorante a piedi. La prima stoccata è che il metro di Pechino non ha niente a che vedere con quello di Shanghai: sembra quello di Milano in versione più sgarrupata. Comunque deve avere una quarantina d’anni. I biglietti si comprano solo allo sportello e poi c’è una signora in un gabbiotto che li controlla prima dell’accesso alle banchine. La seconda stoccata è che, come al solito, sono una frana a leggere le cartine. Dunque camminiamo, camminiamo, camminiamo (in pratica costeggiamo piazza Tiananmen) e ci ritroviamo lontanissimi dal ristorante. Così, siamo costretti, visto che all’orizzonte non ci sono taxi, a prendere un risciò. Il ciclista conducente in questione è una specie di pazzo scatenato che si butta addosso a bici, macchine e auto sfidando la sorte ma facendola sempre franca. Bene o male arriviamo alla meta, sia pure con mezz’ora di ritardo. Il ristorante mi consola di tutto. Vista su Città proibita e pescatori. Dieci e lode.

05 maggio 2009

14 ottobre 2004 - Bye bye Shanghai

Diverse abitudini alle toilette. Al parco Zongshan il bagno è un locale completa- mente piastrellato di bianco con due buchi-canale paralleli alle pareti laterali destinati allo scorrimento della pipì e del resto. Bassi muri, sempre piastrellati, separano gli spazi pseudoindividuali. Culo libero e all’aria, cioè: le porte queste sconosciute.
Vi sembra una sciocchezza di cattivo gusto? Eppure il 17 novembre 2004
a Pechino si è tenuto il vertice mondiale delle toilettes. Vi si parla di cose serissime come la protezione dell'ambiente, la salute pubblica e i diritti dei disabili, nonché di abbattere vecchi e irrazionali tabù. Eppure, a introdurre i lavori che per tre giorni (17-19 novembre) impegnano 400 delegati provenienti da tutto il mondo, viene proiettato un documentario che illustra senza ombra di ironia la storia dei cessi pubblici in Cina. Per esempio, il documentario informa che una delle più moderne toilettes pubbliche della Cina è stata costruita sotto piazza Tiananmen secondo i più avanzati criteri sanitari: porte automatiche, pavimenti in marmo (o qualcosa di molto simile), riscaldamento d'inverno e aria condizionata d'estate. Molti residenti di Pechino affermano di non averlo mai saputo ma devono essere una minoranza se è vero che - come afferma lo speaker - riceve una media di seimila visite al giorno.
Inoltre, si apprende che il livello delle toilettes pubbliche, come quello degli alberghi, è determinato dalle stelline che gli vengono assegnate: dalle quattro in giù. In quelle a quattro stelle, come quella underground della piazza più famosa della Cina, le tavole delle tazze sono state decorate da artisti famosi. In alcune delle 740 nuove toilettes pubbliche della capitale il tetto è trasparente così che, afferma lo speaker, "sembra di essere in Paradiso".
"Col miglioramento delle condizioni di vita - prosegue il documentario - è aumentata la frequenza con la quale si usano i bagni", affermazione indubbiamente vera, ma che strappa una risata alla platea. Il Comune di Pechino - che con l' Ufficio del Turismo provinciale e la World Toilet Organization, fondata a Singapore nel 2001 - ha sponsorizzato il vertice, si è impegnato a fondo nella preparazione delle Olimpiadi del 2008 e ha investito nel miglioramento delle toilettes pubbliche della città 500 milioni di yuan (50 milioni di euro) nei tre anni passati.
Un'altra risata risponde allo speaker del documentario quando dice che "in accordo col concetto di unificazione tra città e campagna" parte dei soldi sono stati impiegati per la ristrutturazione dei gabinetti di villaggio.

... and welcome to Beijing
Ah, il sole tramonta prestissimo, almeno in questa stagione, tanto a Shanghai come a Pechino (siamo appena atterrati, 17.31, e ho visto il bel disco rosso): attorno alle cinque e mezza, appunto.
Pechino: gran casino. È la prima impressione all’aeroporto. I nastri trasportatori girano a vuoto, girano e girano, al numero 17, al 14 e al 15, che continua comunque a girare, non ci sono voli annunciati. Dunque, non c’è nessuno. Al 16, il nostro, sono raggruppati tre voli, perciò c’è una ressa disumana.
Un’altra cosa che mi colpisce è il tetto dei caselli autostradali di Pechino che è fatto ‘a pagoda’ e decorato quasi come un tempio.
Bon, di Pechino, per ora, non abbiamo visto nulla. Siamo arrivati con un’ora di ritardo, poi bagagli, taxi, albergo e quando scendiamo nella hall sono già le otto. Morale: tentativo di prenotare al ristorante consigliato dalla Lonely Planet fallito perché è tutto pieno, si rimedia alla meno peggio con il Berena’s Bistro. Che ci svela l’arcano: a noi in Cina piacciono la cucina di Sichuan e quella pechinese, non quella cantonese che ci propinano in Italia, né, tantomeno, quella di Shanghai, che è piuttosto grassa. Risultato: mangiamo benissimo, comprese melanzane (braised) mitiche e pollo agli anacardi. A fine cena chewing gum per due e rosa per me. Igiene e cortesia.



(chiedo venia, ma la foto delle toilettes non ce l'ho, dunque vi beccate un po' di traffico umano a Shanghai)
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