24 gennaio 2008

4 agosto - Tingri-Shigatse - Com'è bella la città

“Day 3 - Tingri/ Lhatse- Xigatse (3900 m): 224 km - Programma massimo. Ecco il giorno del nostro scontento. La notte del nostro scontento, invece, è quella appena trascorsa. O no? Continue scenic drive crossing over Gyatchu La (5220 m), the highest pass en route to Lhasa via Lhatse from where a road to Mt. Kailash bifurcates to the west. Overnight at hotel”.
Qui comincia l’avventura. La notte è, bene o male, anzi più male che bene, trascorsa. Geneviève è stata malissimo: brividi, probabilmente febbre, e vomito. Carlito sta appena un po’ meglio ma per ora sembra resistere. Frédéric e io non abbiamo niente di che ma abbiamo dormito a intermittenza. Di fatto molti hanno sofferto, come minimo, un mal di testa bestiale.
Il programma prevede colazione alle 6.30 e partenza alle 7, visto che abbiamo un mucchio di strada davanti a noi. Purtroppo, però, noi quattro abbiamo cominciato a dormire sul serio soltanto al mattino e alle 7 passiamo bruscamente dal sonno alla veglia. Poco tempo per una toilette davvero sommaria e per mettere via i sacchi a pelo e i pochi altri oggetti che abbiamo tirato fuori dai bagagli. Poi si torna a bordo.
La guida, oggi, vorrebbe sistemare due persone davanti, all’occorrenza la coreana e me, ma l’autista, molto più saggio del nostro accompagnatore, si rifiuta. Il risultato è che la guida finisce per spostare la coreana su un’altra jeep (quella di Geneviève, Frédéric, Michela e Bruno). Così, d’ora in poi, noi quattro italiani saremo gli unici ad avere il privilegio di viaggiare in tre sul sedile posteriore e in due, autista compreso, su quello anteriore. Gigi dice che probabilmente abbiamo avuto questa concessione perché siamo gli unici che hanno protestato. In effetti, scopriremo poi, la supposta guida funziona proprio così.
Partiamo a stomaco vuoto per fare sosta quasi immediatamente di fronte a una montagna, quasi completamente nascosta dalle nuvole, che l’imbecille che ci accompagna pretende sia l’Everest. In effetti, ieri, all’ultimo stop, ci aveva assicurato che al mattino avremmo potuto contemplare sua altezza addirittura “from your window”. Peccato che tutti noi avessimo soltanto una modesta finestra sul cortile.
La fermata, opportuna così così, ci avvicina ulteriormente ad Antonio, un andaluso di Granada, che è una furia di simpatia. I primi contatti sono avvenuti ieri sera quando mi si è avvicinato nel cortile per informarmi che “la vera avventura, qui, è andare alle toilettes”. Poi ci siamo ritrovati a cena nel ristorante (?) tibetano dell’albergo, uno di quei posti che ripropone l’eterna domanda che già ci inseguiva cinque anni fa in Mustang: ma perché sono così zozzi? Pazienza non ci fosse l’acqua ma qui ce n’è ovunque, perché non si lavano? Né lavano le loro tende, i tavoli, i pavimenti. Nulla. Anyway, Antonio ha cominciato a farci scompisciare dalle risa ieri sera e continuerà per tutto il tempo che passeremo insieme.
Dopo i ridicoli tentativi di fotografare un monte che non si vede, prendiamo nuovamente il via. Fino a Lhatse la strada non è un granché ma è più che praticabile. Alessandra sta male e, a un certo punto, fa fermare la macchina. Si sale, si sale e si sale, sta male anche Carlito. Poi si sale ancora, fino a un passo da 5220 metri.
Quando ci fermiamo per il pranzo, la troupe è decimata: Frédéric è un cencio sbattuto (ma per fortuna Geneviève è quasi tornata alla normalità), Carlito ha una faccia che fa spavento, molti non scendono neppure dalla jeep e quasi tutti, me compresa, ordinano solo riso in bianco. L’unico che mangia con un appetito da leone è Dave, il newyorchese che vive in Florida; non si sa come a lui l’altitudine gli fa un baffo (ma si scoprirà poi che Dave, qualche giorno fa, era al campo base dell’Everest, dunque è chiaro che gli eventuali problemi li ha superati da un pezzo).
Riprendiamo il cammino e la strada è sempre una merda. La ragione per cui percorriamo questa strada disastrosa è che i cinesi stanno costruendo e sistemando una nuova strada più o meno parallela a questa e i lavori creano un casino mostruoso. Arrivare a Shigatse è una pena, ma all’ingresso in città tutto cambia: le strade sono perfette e asfaltate. Passiamo accanto all’area storica, attorno al Tashihunpo Monastery (che visiteremo l’indomani) e troviamo Xigatse, la seconda città più grande del Tibet, gradevole se non bella. Peccato che le nostre jeep si dirigano verso la periferia e si fermino davanti a un hotel che la Lonely Planet stronca. Dico alla guida che non voglio dormire lì e Antonio rincara. Invece, siccome in albergo non c’è posto per tutti, noi siamo i primi a cui viene assegnata una camera.
Ho parlato troppo presto, non è poi così male: la doccia è ottima, le lenzuola e gli asciugamani puliti. Peccato per la moquette e per le testiere del letto che sembrano aver raccolto l’unto di generazioni di teste. Sapremo poi che il secondo albergo era molto, molto migliore, quasi di lusso per gli standard tibetani.
A cena fatichiamo a spiegare al taxista dove vogliamo andare: abbiamo scordato la prima regola fondamentale per chi viaggia in Cina, munirsi di indirizzo scritto in ideogrammi. Perciò ci ritroviamo prima in un altro albergo (il taxista ha capito che cercavamo un posto per dormire) e poi ancora in un hotel (Shigatsé Hotel) decisamente più chic, dove consumiamo una discreta cena a buffet per 50 Yuan (10 yuan = 1 € più o meno) insieme agli spagnoli e ai turkmeni.


(nella foto: uno dei fatali passi tra Tingri e Shigatse)


P.S. regalami qualche secondo qui

Nessun commento:

Licence Creative Commons
Ce(tte) œuvre est mise à disposition selon les termes de la Licence Creative Commons Attribution - Pas d’Utilisation Commerciale - Pas de Modification 3.0 non transposé. Paperblog