30 gennaio 2008

5 agosto - Shigatse e Gyantse - Dalle stalle alle stelle

“Day 4 - Xigatse- Gyantse (3950 m): 90 km - Morning sightseeing to the Panchen Lama’s Tashil- humpu Monastery. Drive to Gyantse and visit to the Kumbum Stupa & Phalkor Monastery. Overnight at hotel”.
Ho parlato troppo presto n° 2. La scorsa notte, attorno alle due, vengo svegliata da Carlito, che mi interpella, o almeno così credo, dicendo ad alta voce qualcosa tipo: “Mah, cosa stai facendo?”. Nelle nebbie del sonno rispondo una frase simile a “Niente, non ho neppure parlato”. Intanto il mio amore accende una torcia, poi la luce della camera, si alza, raccoglie da terra le carte plastificate che sono altrettanti buoni per la colazione e scruta perplesso la scrivania. “Un topo?” domando io, improvvisamente sveglissima. “Eh. Penso”. Wow, che fortuna. Avevamo lasciato in bella vista un pacchetto di biscotti e un po’ di cioccolato, sicuro come l’oro che la nostra imprudenza ha solleticato l’attenzione e l’appetito del topo. Carlito guarda un po’ in giro, io sono perplessa. Alla fine decidiamo di spegnere nuovamente la luce e provare a dormire di nuovo.
Qualche istante dopo i rumori sulla scrivania si riproducono e Carlito punta la torcia in quella direzione e illumina il topolino in questione. Lo vedo guizzare rapidissimo e Carlito sostiene che si sia infilato sotto il mio letto con un balzo (ah, già, ecco un altro neo: letti separati). Riaccendiamo la luce e mi risiedo sul letto, Carlito ricomincia la sua perlustrazione e scopre un biscotto per terra. Chiude tutto in un sacchetto e lo butta in bagno. Io, che sono esausta (le due notti precedenti ho dormito poco e male e, come ho detto, il viaggio sino a Shigatse è stato molto faticoso) e non tanto abituata ai topi, scoppio a piangere come una mentecatta, seduta sul letto. Vorrei smaterializzarmi di botto e ritrovarmi nel mio letto (che, peraltro, in questo momento, fuso a parte, dovrebbe essere occupato dal mio amico Michele cui abbiamo prestato l’appartamento) o accanto alla mia mamma.
Quando riesco a calmarmi valuto la situazione più freddamente: non ci sono mille soluzioni in effetti. Possiamo lanciarci nella caccia alla bestia o decidere di provare a dormire. Con due opzioni: luce accesa o spenta. Finiamo per tentare di ritrovare il sonno a luce accesa, in modo che il topo se ne rimanga nel suo rifugio. Non si dorme un granché bene ma un pochino si dorme.
L’indomani informo la guida dell’indesiderata presenza. Sembra mortificato e mi assicura che l’albergo di stasera sarà migliore. Poi comincia la visita al superbo monastero di Tashihunpo: un vero villaggio, con un mucchio di cappelle, terrazze, giardini, Buddha (tra cui uno gigantesco), in cui, dopo una breve introduzione della guida, ci viene concesso di perderci qualche ora. Il posto è molto bello ma la spiritualità non abita più qui: i monaci, tra l’altro stipendiati dal governo cinese, fanno ormai commercio di tutto. Vendono preghiere, amuleti (carini, qui a 25 yuan, che nel monastero di Gyantse vedremo a 10 e a Lhasa a 5) e si fanno pagare per fare fotografie all’interno delle cappelle. Perdo Carlito quasi subito e trascorro l’intera mattinata con Claudia Marina, una ragazza portoghese che è un portento. Dopo aver cercato, un po’ vanamente, di nutrire lo spirito, andiamo al mercato, dove mi impadronisco di un Kamasutra in osso di yak che si compra anche Claudia (anzi, a dire il vero è lei a condurre la trattativa, io quando c’è da contrattare tendo a farmi da parte. Tanto sono una frana).
All’hotel senza topo ritrovo il mio Carlito che, con Gigi e Alessandra, si è perso il mercato, ma in compenso al monastero ha scovato una corte in cui si svolgeva un dibattito filosofico, durante il quale i monaci argomentano l’uno contro l’altro sottolineando le proprie tesi con battiti di mani, gesti dell’ombrello e similia.
Si riparte. Sosta d’alta montagna in un luogo in cui macinano l’orzo tostato per trasformarlo in farina, la tsampa, che sembra essere, a giudicare dall’entusiasmo della nostra guida e degli autisti, una sorta di fiero cibo nazionale tibetano.
Dopo una pausa pranzo un po’ tardiva, raggiungiamo Gyantze, ai miei occhi la perla del Tibet, e il sito che molti tra noi hanno preferito. Al Phalkor Monastery e al Kumbum Stupa troviamo infine una sottile aura mistica, commercio meno evidente, qualche etto di spiritualità. Cena memorabile da Zhang Yuan (pensierino lasciato per lui sul “quaderno delle recensioni” del mitico: “Applauso a scena aperta per l’ottima cena. Ho ancora in bocca il sapore delle banane caramellate. Il tre stelle Michelin del Tibet. Zhuang Yuan, grazie di esistere”). In effetti, una vera consolazione dopo i tormentini di questo viaggio. E per il sweet and sour chicken hip hip hurrah, hip hip hurrah, hip hip hurrah hurrah hurrah.


(nella foto: dibattito filosofico nel monastero di Tashihunpo a Shigatse)



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24 gennaio 2008

4 agosto - Tingri-Shigatse - Com'è bella la città

“Day 3 - Tingri/ Lhatse- Xigatse (3900 m): 224 km - Programma massimo. Ecco il giorno del nostro scontento. La notte del nostro scontento, invece, è quella appena trascorsa. O no? Continue scenic drive crossing over Gyatchu La (5220 m), the highest pass en route to Lhasa via Lhatse from where a road to Mt. Kailash bifurcates to the west. Overnight at hotel”.
Qui comincia l’avventura. La notte è, bene o male, anzi più male che bene, trascorsa. Geneviève è stata malissimo: brividi, probabilmente febbre, e vomito. Carlito sta appena un po’ meglio ma per ora sembra resistere. Frédéric e io non abbiamo niente di che ma abbiamo dormito a intermittenza. Di fatto molti hanno sofferto, come minimo, un mal di testa bestiale.
Il programma prevede colazione alle 6.30 e partenza alle 7, visto che abbiamo un mucchio di strada davanti a noi. Purtroppo, però, noi quattro abbiamo cominciato a dormire sul serio soltanto al mattino e alle 7 passiamo bruscamente dal sonno alla veglia. Poco tempo per una toilette davvero sommaria e per mettere via i sacchi a pelo e i pochi altri oggetti che abbiamo tirato fuori dai bagagli. Poi si torna a bordo.
La guida, oggi, vorrebbe sistemare due persone davanti, all’occorrenza la coreana e me, ma l’autista, molto più saggio del nostro accompagnatore, si rifiuta. Il risultato è che la guida finisce per spostare la coreana su un’altra jeep (quella di Geneviève, Frédéric, Michela e Bruno). Così, d’ora in poi, noi quattro italiani saremo gli unici ad avere il privilegio di viaggiare in tre sul sedile posteriore e in due, autista compreso, su quello anteriore. Gigi dice che probabilmente abbiamo avuto questa concessione perché siamo gli unici che hanno protestato. In effetti, scopriremo poi, la supposta guida funziona proprio così.
Partiamo a stomaco vuoto per fare sosta quasi immediatamente di fronte a una montagna, quasi completamente nascosta dalle nuvole, che l’imbecille che ci accompagna pretende sia l’Everest. In effetti, ieri, all’ultimo stop, ci aveva assicurato che al mattino avremmo potuto contemplare sua altezza addirittura “from your window”. Peccato che tutti noi avessimo soltanto una modesta finestra sul cortile.
La fermata, opportuna così così, ci avvicina ulteriormente ad Antonio, un andaluso di Granada, che è una furia di simpatia. I primi contatti sono avvenuti ieri sera quando mi si è avvicinato nel cortile per informarmi che “la vera avventura, qui, è andare alle toilettes”. Poi ci siamo ritrovati a cena nel ristorante (?) tibetano dell’albergo, uno di quei posti che ripropone l’eterna domanda che già ci inseguiva cinque anni fa in Mustang: ma perché sono così zozzi? Pazienza non ci fosse l’acqua ma qui ce n’è ovunque, perché non si lavano? Né lavano le loro tende, i tavoli, i pavimenti. Nulla. Anyway, Antonio ha cominciato a farci scompisciare dalle risa ieri sera e continuerà per tutto il tempo che passeremo insieme.
Dopo i ridicoli tentativi di fotografare un monte che non si vede, prendiamo nuovamente il via. Fino a Lhatse la strada non è un granché ma è più che praticabile. Alessandra sta male e, a un certo punto, fa fermare la macchina. Si sale, si sale e si sale, sta male anche Carlito. Poi si sale ancora, fino a un passo da 5220 metri.
Quando ci fermiamo per il pranzo, la troupe è decimata: Frédéric è un cencio sbattuto (ma per fortuna Geneviève è quasi tornata alla normalità), Carlito ha una faccia che fa spavento, molti non scendono neppure dalla jeep e quasi tutti, me compresa, ordinano solo riso in bianco. L’unico che mangia con un appetito da leone è Dave, il newyorchese che vive in Florida; non si sa come a lui l’altitudine gli fa un baffo (ma si scoprirà poi che Dave, qualche giorno fa, era al campo base dell’Everest, dunque è chiaro che gli eventuali problemi li ha superati da un pezzo).
Riprendiamo il cammino e la strada è sempre una merda. La ragione per cui percorriamo questa strada disastrosa è che i cinesi stanno costruendo e sistemando una nuova strada più o meno parallela a questa e i lavori creano un casino mostruoso. Arrivare a Shigatse è una pena, ma all’ingresso in città tutto cambia: le strade sono perfette e asfaltate. Passiamo accanto all’area storica, attorno al Tashihunpo Monastery (che visiteremo l’indomani) e troviamo Xigatse, la seconda città più grande del Tibet, gradevole se non bella. Peccato che le nostre jeep si dirigano verso la periferia e si fermino davanti a un hotel che la Lonely Planet stronca. Dico alla guida che non voglio dormire lì e Antonio rincara. Invece, siccome in albergo non c’è posto per tutti, noi siamo i primi a cui viene assegnata una camera.
Ho parlato troppo presto, non è poi così male: la doccia è ottima, le lenzuola e gli asciugamani puliti. Peccato per la moquette e per le testiere del letto che sembrano aver raccolto l’unto di generazioni di teste. Sapremo poi che il secondo albergo era molto, molto migliore, quasi di lusso per gli standard tibetani.
A cena fatichiamo a spiegare al taxista dove vogliamo andare: abbiamo scordato la prima regola fondamentale per chi viaggia in Cina, munirsi di indirizzo scritto in ideogrammi. Perciò ci ritroviamo prima in un altro albergo (il taxista ha capito che cercavamo un posto per dormire) e poi ancora in un hotel (Shigatsé Hotel) decisamente più chic, dove consumiamo una discreta cena a buffet per 50 Yuan (10 yuan = 1 € più o meno) insieme agli spagnoli e ai turkmeni.


(nella foto: uno dei fatali passi tra Tingri e Shigatse)


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16 gennaio 2008

3 agosto Zhangmu - E si riparte


“Day 2 - Zhangmu/ Nyalam - Tingri (4300 m)/Lhatse (4350 m): 225/244 km - Day drive uphill to the highest plateau of the world (wow; è davvero fantastico) with all the tipical view of Tibetan landscape offering sheer feeling of standing on the roof of the world crossing over Lalungla (5050 m), from where, weather (ma, in effetti, a noi fa difetto un altro genere di tempo) permitting, breathtaking panorama of beautiful Himalayan ranges including Mt. Cho Oyu (8201 m) and Mt. Xishapagma (8012 m) but dwarfed by the vastness of the Tibetan plateau. From Tingri (quindi per noi l’indomani), one can enjoy the magnificence of Mt. Everest (8848 m). Overnight at the hotel (e qui il coraggio si moltiplica: hotel? Quale hotel? Qualcuno ha visto un hotel?).
Indovina? Opzione minore: si dormirà (chi può) a Tingri, il buco del culo del Tibet.
La guida è stata perentoria ieri sera: per chi ha colazione inclusa, breakfast alle 8.30. Poi ci si ritrova al controllo (dove per altro hanno tenuto i nostri passaporti tutta la notte) alle 9. Il gruppo vacanze Piemonte della camera di fianco al cesso mette la sveglia alle 7.30. Così, tanto per la colazione che per il meeting collettivo, siamo pronti molto molto prima del necessario. L’inutilità è patente: il posto di controllo, tanto per cominciare, apre alle 9.30. In seguito bisogna sottostare agli incredibili tempi cinesi e alle interminabili manovre. Prima che abbiamo soltanto il diritto di varcare il confine per rientrare in terra di nessuno (chissà poi di che confine si tratta. Avrei giurato l’avessimo varcato ieri) ci passano davanti file e file di camion; infine abbiamo il permesso di penetrare in dogana, facciamo passare i nostri bagagli al controllo e poi ci mettono in fila. Dopo qualche tempo posiamo gli zaini a terra, consci che l’attesa non sta affatto per terminare. Miracolo, la guida ci restituisce i passaporti. Il che non significa, apparentemente, nulla.
È passata almeno un’altra mezz’ora quando un tizio in uniforme non militare, con l’aria del perfetto burocrate nullafacente, mentre tira indifferenti boccate dalla sua sigaretta, decide che la nostra fila non è nella posizione corretta e ci invita, assai poco garbatamente, a spostarci di mezzo metro. Dieci minuti dopo decide di dare alla coda una nuova raddrizzata. La fila, comunque, si scompone continuamente per l’attesa: c’è chi fuma una sigaretta, chi va a vedere che accade in cima alla coda, chi passeggia nella minuscola area in cui è consentito e così via. Alla fine di questa estenuante mattinata riusciamo a passare (che io sappia solo Frédéric ha qualche problema visto che la macchinetta automatica controllapassaporti non riconosce il suo documento). Una volta terminato il controllo individuale ci sono non so che diavolo di pratiche collettive che vengono sbrigate dalla guida e, finalmente, attorno a mezzogiorno riusciamo a imbarcarci sulle jeep. Siamo in Cina, finalmente. Pardon, in Tibet.
L’equipaggio comprende la coreana, Gigi e Alessandra e noi due. La coreana è un vero soggetto: viaggia sola, non rivolge mai la parola a nessuno (oddio, forse dopo la notte comune aveva un po’ legato con una giapponese vestita come per una sfilata, tanto che le due erano salite sulla stessa jeep, ma Gigi, con molto fair play devo dire, le ha chiesto se poteva cambiare posto in modo da non separare nessuna coppia e lei, con squisita gentilezza asiatica, ha scaricato il suo bagaglio e si è spostata), legge il suo libro tutto il tempo, è sempre la prima a salire a bordo dell’auto, dove è capace di rimanere ore, paga sempre qualcuno perché le porti la valigia, si guarda quasi di continuo allo specchio, estrae misteriosi quadratini blu da un astuccetto di cartone e si tampona il viso per togliersi inesistenti eccessi di sebo, è la sola che, nel corso del viaggio, siamo quasi riusciti a perdere (a parte la già citata giapponese che, a un certo punto, sembrerà essersi dissolta nel nulla) a una stazione di servizio.
La coreana si è seduta davanti, dove c’è spazio per due, mentre noi ci ritroviamo schiacciati dietro in quattro. Però è gentile e decide di rompere silenzio e ghiaccio dicendoci “Ehi guys, se qualcuno di voi vuole venire davanti no problem, basta dirlo”. Noi, probabilmente assaliti dai sensi di colpa per tutti gli accidenti che le abbiamo inviato sino a un istante prima, decliniamo quasi in coro l’offerta. Ma, visto che tra il lusco e il brusco, non siamo ancora partiti, arriva la guida e sconvolge il branco: la coreana, che è piccola e sottile, deve spostarsi dietro e uno di noi ingombrantoni deve passare davanti. Tocca a Carlito, mi pare, e, finalmente, si parte.
Durante questo lungo e, come si vedrà, estenuante viaggio in jeep, l’unica consolazione è il paesaggio, che cambia gradualmente più e più volte, verdissimo nella valle di Katmandu e poi alpino, verde di montagna, dunque più intenso, ricco di risaie e di coltivazioni a terrazza, anche microscopiche, che perde a poco a poco colore per trasformarsi in roccia, arida pietraia, mica friabile, di nuovo roccia argillosa e multicolore, cosparsa di macchie gialle di colza, del verdino del grano ancora giovane, di qualche rettangolo viola di qualcosa che sembra lavanda. Per terminare, attorno a Lhasa, con montagne che sembrano acquarelli giapponesi. Una favola.
Prima che ci avviassimo ho prudentemente chiesto alla guida se dovevamo comprare qualche sandwich da portare con noi, ma, dopo una prima risposta affermativa, l’imbecille decide che non vale la pena e che faremo invece una sosta per il pranzo. Brillante idea, visto che la notte scorsa, per essere a posto con le tappe avremmo dovuto dormire a Nyalam, 33 km dopo Zhangmu (a sua volta soltanto a 123 km da Katmandu) e che, come si sarà capito, è appunto soltanto all’ora di pranzo che riusciamo infine a lasciare Zhangmu.
Dunque siamo appena partiti o quasi quando ci fermiamo, forse proprio a Nyalam, dove Carlito e io dividiamo un tavolo, qualche fried rice e qualche birra con i “turkmeni” Geneviève e Frédéric. La guida vede la nostra birra e ci avvisa: “You’ll be sick”. Affermazione che, per qualcuno almeno, sarà profetica.
Il viaggio non è comodissimo, anche perché in quattro dietro si sta un po’ come sardine, ma, tutto sommato, può andare. Le giornate sono lunghissime perché la Cina ha un unico fuso orario, dunque il Tibet che, nel nostro caso, si trova a circa 5000 km da Pechino, ha la stessa ora della capitale. Passando il ponte dell’amicizia, ieri, abbiamo perso in un botto due ore e un quarto perciò ieri sera ci siamo coricati insieme alle galline nepalesi.
Si varca il passo da 5000 m, dove, come accadrà a ogni valico durante questo viaggio, sostiamo per qualche minuto. Proprio come ogni altro passo, in Tibet o in Mustang che sia, anche questo contempla la sua brava dose di pietre raccolte in mucchio (visto che tradizionalmente ogni indigeno che transita posa un sasso sulla montagnola) e la sua sfilata di preghiere nel vento. Poi si prosegue e si cominciano a intravedere altissime montagne. È quasi sera quando facciamo nuovamente sosta per contemplare il presunto Everest. Nessuno di noi saprà mai, a posteriori, di che montagna si sia realmente trattato: la guida dice che è l’Everest e l’autista della jeep dice di no. In ogni caso, qualunque sia il nome di quel picco, la vetta è quasi completamente celata dalle nuvole, dunque la vista ci commuove fino a un certo punto. Comunque questo è il momento scelto dalla guida per radunarci attorno a lui e farci la sua proposta: visto che è tardi chiede se non sia il caso di fermarsi a Tingri (Old Tingri) per la notte, invece di proseguire fino a Lhatse. Io aderisco per prima e nessuno ha obiezioni, probabilmente perché di jeep e di polvere e stritolamenti da affollamento sul sedile posteriore non ne possiamo più. Mal ce ne incoglie: qualche decina di minuti più tardi raggiungiamo la topaia che ci ospiterà per la notte. Finiamo in una stanza da quattro che misurerà all’incirca 4 metri quadrati, insieme ai francesi del Turkmenistan. Una pena. La doccia è comune e comincia a far freddo per cui solo pochi temerari osano affrontarla e tra questi non figuriamo noi. Il cesso, ché altrimenti non si può chiamare, non è nient’altro che una grossa cava coperta da un asse di legno. Sotto il grosso buco nell’asse si estende una montagna di merda. C’è chi, come Geneviève, visto il posto, decide di rinunciare e di incamminarsi verso qualche luogo appartato e all’aperto. Al rientro dalla gita igienica sta male: un mal di testa da scoppiare. Primo sintomo del mal di montagna. Geneviève si mette a letto e noi tre superstiti proviamo ad andare a mangiare. Con scarso successo. La notte è un inferno per molti del gruppo.


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