29 novembre 2007

2 agosto 2005 - Katmandu-Zhangmu

7 nights-8 days - Overland adventure in Tibet with one way trans Himalayan flight” è il programma che abbiamo acquistato e che per il giorno numero uno prevede Kathmandu (1300 m) - Zhangmu (2500 m)/Nyalam (3700 m): 123 km/156 km. Descrizione: “Early morning (nella realtà pomeriggio) scenic drive to Kodari (Nepal-Tibet border) through the beautiful Nepalese countryside and after necessary border formalities at Nepalese immigration, an hour adventurous uphill drive by truck (normally) or 2 hours walk uphill (in case of landslide) to Chinese immigration (che rende l’ingresso facilissimo, come si vedrà), check-in to the hotel (hotel si fa per dire) or continue to drive to Nyalah. Overnight at hotel”.

Si parte. O quasi.
Tutti in pullman, ore 9.14, altri quattro italiani e un gruppo di? Usa? più una coreana. Mancano, a quanto pare, tre ritardatari. Che poi sono due e sono francesi.
Il loro arrivo non cambia granché, quello che si aspetta è l’aereo da Lhasa con i permessi (per? noi? Evidentemente, visto che se no non si parte, ma, mi domando, perché il sabato, quando si parte alle 5.30, gli stessi permessi non sarebbero necessari?).
Una volta che l’aereo atterra a Katmandu, ci comunicano che andiamo a prenderci i permessi all’aeroporto (che, comunque, più o meno, è di strada). Non potevamo partire prima per l’aeroporto? Misteri nepalesi. Il risultato è che sono le 10.20 e non siamo ancora davvero partiti.

La colazione prevista nel programma è un miraggio e, a quanto pare, pure il pranzo. Perciò sono ultrafelice di essermi portata dietro gli avanzi di pizza che Carlito schifava. Di fatto le fettine fredde di una margherita versione Katmandu ci faranno da colazione e anche da pranzo. Mentre a merenda prenderemo qualche banana al confine.

La strada tra Katmandu e Kodari, proprio come promesso dal programma, è bellissima: si sale e si scende in mezzo ad abeti che sembrano ancora più verdi sull’argilla rossa, qualche casa sparsa, un sacco d’acqua, ruscelli, cascatelle e poi veri fiumi. Le mucche si diradano man mano che aumentano le capre (fantastiche le capre che mangiano i manghi). Il disastro e le stramberie cominciano dalla frontiera.

La nostra brusca e antipatica guida sembra disposta a fare finalmente qualcosa per noi: occuparsi dell’uscita dal Nepal. Dunque scendiamo tutti dal pullmino, non prima di aver subito l’assalto dei nepalesi cambiavalute (1 € = 8,5 yuan, che non è propriamente il cambio più vantaggioso). La guida arriva addirittura a consigliarci da chi cambiare (che s’ha dda fa’ ppe’ campa’).

Comunque, armi e bagagli in mano o in spalla, affrontiamo una ventina di metri di terra di confine, dopodiché la guida ci intima di fermarci e di attendere. Carlito ne approfitta per comprare una cassa d’acqua. Io, invece, come si saprà tra poco, colgo l’occasione per mettere tra parentesi il cervello per un paio d’ore.

I nepalesi, come sempre abbondantemente armati, sono tranquilli e non fanno una piega neppure quando li prendiamo in foto sulla sbarra di frontiera.
Poco o nulla sembra cambiato nella fisionomia dei volti: i tibetani, che in quest’area sono ancora decisamente maggioritari rispetto ai cinesi, sono pressoché identici ai nepalesi di frontiera.
L’unica differenza apparente è che, appena superata la prima barra di metallo, si moltiplicano i tavoli da biliardo. Per lo più collocati in situazioni improbabili: per esempio in una stanza su strada che da noi sarebbe un negozio privo di porte e vetrine ma dotato di saracinesca. A posteriori mi chiedo se il biliardo non sia uno degli sport nazionali cinesi (con Cina usato come termine generico e globale), co-protagonista, tra l’altro, del primo episodio, “Il tempo dell’amore”, del film taiwanese “Three Times”.

Una ventina di minuti più tardi, mentre ho infilato gli occhiali sopra la testa e scrivo, cominciano le prime gocce di pioggia.
È il momento scelto per muoversi.
Riprendiamo tutto quanto e percorriamo ancora qualche decina di metri fino a raggiungere l’estremità cinese del Ponte dell’amicizia.
Qui nuovo stop. E nuovo ordine: tutti i bagagli in fila vicino al parapetto, a lato dell’ufficio China Inspection and Quarantine.

Dimenticavo: prima che attraversiamo il ponte-confine ci ripetono fino alla nausea che non abbiamo il diritto di fare foto. Visto quello che accade ai nostri bagagli sospetto che i cinesi abbiano paura del ridicolo. Un tizio si arma di uno spruzzatore da Ddt formato gigante e inonda più volte zaini, borse e valigie di una misteriosa sostanza disinfettante. Ma non erano i cinesi ad avere la Sars? Ah, ah, ah. Ah, l’operazione avviene sotto lo sguardo più o meno vigile di un altro tale, the Doc immagino, in camice bianco.

Appena terminata l’operazione la pioggia si fa più insistente. Ho già il mio cappellino impermeabile in testa, ma sfodero anche il poncho anti-pioggia.
Compiliamo un altro Immigration form (il primo, riempito sul pullman, era evidentemente destinato ai nepalesi) e presentiamo foglietto e passaporto ai due impiegati dietro lo sportello di frontiera.
Qui avviene un’altra cosa strana: l’impiegato ci punta un termometro nello spazio tra gli occhi e comunica alla collega la temperatura di ciascuno, che la signorina, puntualmente, annota. Di nuovo la Sars?

Mentre notiamo una fila di camion colorati in fila su una cresta parallela (a proposito, i camion cinesi sono anche meglio di quelli nepalesi. Se quelli avevano al massimo una collezione di Buddha, questi si sbizzarriscono: ce n’è uno con un enorme Yin e Yang, uno con un grande ritratto di Bob Marley e via enumerando), arriviamo a un imponente arco cinese con giganteschi ideogrammi dorati (“Lasciate ogni speranza voi ch’entrate”?) sotto il quale staziona il funzionario che deve controllare i nostri passaporti e visti.
La pioggia è ormai un diluvio. Tanto che quando estraggo il marsupietto in tela che contiene documenti, soldi, biglietto aereo Lhasa-Katmandu, carta di credito e, in breve, tutto quanto è davvero importante, lo trovo più bagnato che umido. Così decido di tenerlo in mano.

Passato il controllo, si corre sotto la cortina d’acqua fino a raggiungere un riparo sotto una tettoia in plastica. Mentre siamo ammucchiati là in attesa di poter salire sulle jeep, mi accorgo di aver perso gli occhiali (in effetti li avevamo lasciati infilati in testa mentre scrivevo alla frontiera nepalese. Nel frattempo non me ne sono più occupata. In compenso ho infilato il cappello prima e il poncho poi e ho sfilato e rimesso più volte lo zainetto di Carlito che porto sul davanti). Li cerco attorno al collo, più o meno addosso, levo il poncho. Niente, spariti. Mi rompe parecchio, anche perché mi farò il Tibet da ciecata, ma mi rassegno. Sono un’inguaribile imbranata. In più, a quanto pare, sono pericolosamente distratta. E sottolineo: pericolosamente.

Arriva il momento di raggiungere le jeep e la pioggia se n’è quasi andata. Sto per toccare l’auto quando mi accorgo che ho perso il marsupietto. Un genio. Adesso sono un po’ più inquieta: levo il poncho, guardo nello zaino di Carlito, ma lo so che non è lì, non l’ho mai messo dentro, non può esserci, mi sono limitata ad appoggiarlo lì sopra e a tenerlo con le due mani. Fino a quando?

Controllo il pile che ho annodato in vita e ritrovo gli occhiali. Una parte di me ride, sono davvero contenta del ripescaggio in extremis della mia protesi da sole. Ma sono anche in ambasce: in terra di nessuno senza passaporto. Un genio, ripeto, un genio.
Torno sui miei passi. Nell’acqua che mi arriva sopra le caviglie, malgrado gli occhiali ritrovati, non vedo niente.
Ma gli angeli esistono. Io, poi, di angeli custodi devo averne due. E li tengo sempre costantemente occupati. Infatti vedo arrivare verso di me due ragazzi nepalesi che mi porgono il mio inzuppato marsupietto. Non so come ringraziarli: tutti gli yuan li ha Carlo, gli regalo un po’ di euro che non li rendono affatto contenti. Tuttavia continuano a preoccuparsi di me: ma hai controllato di avere il passaporto? Macché. Lo faccio ora. È in condizioni pietose ma quello che sta peggio è decisamente il biglietto aereo, speriamo bene.

Conquisto finalmente il posto sulla jeep e stendo sulle gambe tutti i miei fradici averi. Mauvais timing et mauvaise nouvelle: dobbiamo stringerci e stare in quattro sul sedile posteriore, siamo in 34, autisti esclusi, e abbiamo soltanto sette jeep. Sale Alessandra, costretta, almeno per questo tragitto, a separarsi da Luigi. L’autista ci comunica che abbiamo appena sette chilometri da fare. La strada necessaria a raggiungere Zhangmu, il villaggio di frontiera cinese. Dove, visti i ripetuti ritardi che non ci consentono di raggiungere Nyalam, pernotteremo.

Toh, i cinesi, ora che ci penso all'asciutto e posso permettermi di guardarli dal finestrino, non hanno un’arma. Il che non gli impedisce di essere perentori.

Al villaggio nuova sorpresa, ovvero nuova dogana. La guida ci intima di lasciare i bagagli dove stanno, prendere il necessario per la notte e seguirlo all’albergo. È la guida tibetana, quella nepalese ci ha affidati a lui prima che varcassimo l’arco. Qualcuno protesta e ottiene, proprio come Carlito, di poter portare con sé l’intero bagaglio. Arrivati all’albergo, per il quale, secondo l’esimia guida, il sacco a pelo è inutile, ci smistano nelle stanze a cinque per cinque. Carlito chiede una camera da sei e fonda così la colonna italiana.

Quarto piano. Lungo le scale puzza di piscio, che non promette nulla di buono. La camera non è davvero granché: sei letti allineati lungo le pareti, coperte, asciugamani, materassi e cuscini che sembrano gridare "lavatemi". Con pazienza leviamo tutto questo ammasso di zozzerie, materasso escluso, e stendiamo i nostri sacchi a pelo. La stanza è proprio di fianco al bagno comune, che, tutto sommato, è frequentabile e le docce sono al piano di sopra. Anche per la cena restiamo in colonia Bel Paese anche se a noi si aggiungono i due francesi: vivono in Turkmenistan, probabilmente il buco del culo del pianeta, a quanto raccontano. Ma questa è un'altra storia.


(nella foto: prima frontiera nepalo-cinese)

28 novembre 2007

C'era una volta il Tibet

Premessa

Questa storia, proprio come il blog su cui è nata “La turista smarrita”, ha avuto il suo inconsapevole inizio oltre sette anni fa. Con il viaggio di cui racconto in “Mustang lento”. Quelle prime pagine sono nate in rete, man mano che aggiornavo un’amica sulle mie vacanze. Via e-mail. È stata la prima volta che i miei diari di viaggio sono usciti dai miei taccuini. Per il momento non è stata l’ultima.
Nel frattempo qualcosa è successo a me. Non sono stata travolta da una crisi mistica buddhista, né illuminata dal Dalhai Lama, sono solo cambiata. E, forse, almeno un poco, ne sono responsabili anche i miei viaggi.

27 novembre 2007

Parigi, oggi

Da un anno a questa parte sul Nepal non ho più scritto niente. Né un post, né, tanto meno, un articolo. Lo ha fatto Alessandro, però, nel suo blog d'autore e leggerlo a me scalda il cuore (a proposito, la foto l'ho presa dal blog di Gilioli, spero nessuno se ne abbia a male).
Che accade oggi in Nepal? La situazione è instabilmente stabile. Il parlamento provvisorio ha chiesto al governo di preparare la proclamazione di una Repubblica: un compromesso con i maoisti che chiedevano l'abolizione immediata della monarchia. Il Nepal è tuttora un regno ma il suo re fantoccio è esautorato da ogni potere e privilegio. Il governo naviga a vista, in attesa di preparare una grande consultazione popolare, al più presto per l'aprile 2008, che dovrebbe eleggere un'assemblea costituente, decidere le sorti della monarchia e, ça va sans dire, il futuro politico della nazione himalaiana. Che la sorte ci accompagni.

14 novembre 2007

Parigi, 18 maggio-novembre 2006 - Piccoli passi

Il re è un po’ più nudo che nel post precedente: il Parlamento nepalese ha cominciato a togliere all'orrendo Gyanendra parte del suo potere. E, soprattutto, gli ha tolto, con voto all’unanimità, il comando delle forze armate. In attesa di levargli anche il trono, si spera.
Intanto il Gilioli va e viene dal Nepal. Questa intervista (http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2006/11/09/prachanda-on-line) è un gran bel lavoro del caporedattore dell’Espresso. Per quanto mi riguarda, ora e sempre: lunga vita al compagno Prachanda.

13 novembre 2007

Parigi, 24 aprile 2006 - Il re è nudo

Sorellina, nipotina e cognato sono partiti appena in tempo. Hanno lasciato Katmandu e, il giorno dopo, la rivolta era su tutte le bocche. Ci sono voluti una ventina di morti in piazza, ma, improvvisamente, tutto il mondo occidentale si è accorto del Nepal. Sta esplodendo e, per quanto riguarda me, l’evento era atteso da mesi. Quello che sta accadendo ora sarebbe potuto accadere a gennaio. O a febbraio. L’importante è che accada. Negli ultimi tre-quattro giorni persino il “Corriere” e “La Repubblica” hanno ficcato il Nepal in prima pagina. Pazienza se qualche articolo era infarcito di fregnacce e ha chiaramente dimostrato che di Nepal parecchi di quelli che ne stanno scrivendo sentono parlare per la prima volta; pazienza, ripeto, i bravi colleghi imparano in fretta. E oggi qualcuno cerca di capire.
Prachanda, il leader dei maoisti, l’ha dichiarato nell'ultimo discorso: non ci sono che due soluzioni, o la famiglia reale va in esilio o zac. L’Alleanza democratica non lo dice; reclama, comunque, un’assemblea costituente. Il sottinteso è il passaggio dalla monarchia alla repubblica e allora bye bye Gyanendra Shah e bye bye a tutti gli Shah. I nepalesi non credono più che il re sia una divinità; non questo re, almeno.
I nepalesi di Parigi, ma sono pochi, pochissimi, appena un migliaio in tutta la Francia, trattengono il fiato, pieni di speranza. In giorni come questi il futuro sembra comunque rosa. Io incrocio le dita e sogno che il Nepal sappia offrire al mondo la migliore delle lezioni e non conceda spazi alla crudeltà.


(nella foto: arancio a Durbar Square, Katmandu)

12 novembre 2007

Parigi, 12 febbraio 2006 - Ong

Non vorrei ci si sbagliasse: non è che il Nepal sia un completo scono- sciuto, il suo 129° posto tra i paesi con il più basso Isu, Indice di sviluppo umano, qualcosa gli ha attirato, le Ong. Mi hanno raccontato che ci sono 36.000 Ong che operano in Nepal. 36.000, mica cazzi. Alcune saranno fittizie, certamente, ma 36 mila sono quelle registrate: tra queste ce ne sono di grosse e di microscopiche.
La prima volta che sono stata in Nepal, cinque anni fa, sono andata a visitare qualcuna di queste strutture. Il Wodes, Women Development Society, è un’associazione che si occupa di donne. Avevano allora diversi progetti: organizzavano gruppi di lavoro al femminile e azioni contro i principali problemi, dall’alcolismo al controllo delle nascite. Poi la scuola messa in piedi da Stella Tamang, che, insieme alla la sorella Della, gestisce la Bhrikuti Secondary School. Alcuni degli 11 figli del mio amico Nima cuore di panna studiano lì. È una scuola come non ce ne sono neppure in Occidente, il cui vero scopo è educare, anche attraverso il gioco e le arti, più che istruire. Ci sono corsi regolari e corsi per ragazze “delle montagne”, lavoratrici in erba, analfabete e similia. Una visione trasformata in realtà. E, infine, il Cwin, Child Workers in Nepal, che è appunto un centro per bambini lavoratori, l’unico deludente, malgrado o forse proprio per l’appoggio Onu.
L’estate scorsa, invece, ho conosciuto per caso, in viaggio verso il Tibet, un americano pazzo e giramondo, fervente cristiano, che, dopo aver passato diversi anni in Sudamerica e svariati tra Pakistan e India, si è stabilito con moglie e figli a Katmandu e si è creato la sua bella Ong. Si occupa, a suo dire, di ragazzi vittime della guerriglia, per lo più orfani. È un gran brav’uomo e si vede, anche se è evidentemente imbevuto del furore messianico dei missionari made in Usa, quello che li fa assomigliare tutti a una massa di mormoni o di avventisti del settimo giorno assetati di proselitismo. Anche Mae-Sot, la cittadina tailandese al confine con il Myanmar (ex Birmania) attorno alla quale da una quarantina d’anni sono stati insediati i campi di profughi Karen, perseguitati dal regime di Yangoon, ne era piena. Al di là della predicazione, ritengo comunque probabile che l’amico americano faccia un buon lavoro. E di gente come lui, il Nepal, stando ai numeri e anche a un poco di esperienza personale, è pieno.

P.S. Nel frattempo il principe nepalese si è fatto un giro in Europa


(nella foto: Bollywood a Katmandu, Durbar Square)

09 novembre 2007

Parigi, 27 gennaio 2006 - Raccontavano a Rukum

Il racconto risale all’8-9 gennaio, ai giorni, cioè, in cui ero a Katmandu. Rukum è il nome di un distretto a ovest di Katmandu, una delle aree controllate dai maoisti. Secondo quanto mi è stato riferito, da fonti estremamente attendibili, l’esercito maoista stava riunendo circa 7000 uomini, pronti a spostarsi verso est, cioè in direzione della capitale. Attentati e scontri tra le due armate (quella comunista e quella reale) erano ricominciati e la situazione si stava surriscaldando, soprattutto in vista delle elezioni municipali dell’8 febbraio. Elezioni-farsa alle quali, si diceva allora, parteciperebbero qualcosa come 72 partitini, ma nessuno dei sette partiti che compongono l’Alleanza democratica. Come dire che si presentano soltanto i galoppini del re. Quanto ai maoisti, sempre secondo le mie fonti, pare abbiano minacciato gli elettori: chi si reca a votare pagherà le conseguenze dell’atto, sulla propria pelle ed eventualmente pure su quella dei suoi familiari. Il risultato previsto da chi mi ha riportato queste informazioni è che nessuno, o quasi, andrà a votare, soprattutto nelle regioni controllate dai guerriglieri e che i monarchici voteranno al posto degli elettori che non si presenteranno: sono loro che hanno in mano le liste elettorali, dopotutto.

Se interessa approfondire qui c'è quello che ho raccontato sul blog dell'Espresso


(nella foto: preghiere nel vento)

08 novembre 2007

Parigi, 25 gennaio 2006

Un signore che neppure conosco, Andrea Pergola, si è inventato i Blog for Nepal e mi invita a scrivere qualcosa, visto che sono tornata da Katmandu appena una decina di giorni fa. Provo a raccogliere. Per ora qualche idea in ordine molto sparso.

La prima cosa che mi viene in mente è che, nel 2000, tutte le persone con cui ho avuto modo di parlare della guerriglia, si sono dichiarate maoiste o comunque vicine ai maoisti. Compreso un poliziotto. Cinque anni dopo, la scorsa estate, cioè, non trovo affatto una simile unanimità. Per una persona che si è illuminata di un enorme sorriso nel sentirmi citare alcune regioni nepalesi e che ha commentato “Good maoists”, ne ho trovate decine che non avevano alcuna voglia di parlare e una che mi ha tenuto un comizio che potrei definire filonazista (e che detestava, o piuttosto detesta, tanto il re quanto i maoisti). Invece, ho conosciuto un ragazzo, un guardiano, che, in un attentato a un pullman in cui sono morte 88 persone, ha perso la moglie e il figlio neonato. L’ho rivisto a gennaio e mi ha presentato la nuova moglie.
Quest’estate ho assistito anche a qualche manifestazione, di militanti per i diritti umani, per lo più, a partecipazione piuttosto scarsa, tanto che i poliziotti presenti mi sono sembrati altrettanto se non più numerosi dei dimostranti. Niente di sorprendente: si vive sotto dittatura e quasi a ogni dimostrazione c’è qualche ferito, o, almeno, è quanto ho letto sull’”Himalayan Times”, quotidiano abbastanza filogovernativo.
Come ho scritto qualche post fa, comunque, anche se vuoi far finta di niente, non puoi non vedere i poliziotti in giro, o i posti di blocco la sera, lungo gli assi principali della città. Vero è che la maggior parte dei turisti quando è a Katmandu, resta per lo più a Thamel, il centro, dove ci sono ristoranti e locali, e che a Thamel anche di poliziotti se ne vedono meno.
I nepalesi, intanto, vanno a lavorare altrove. Un nostro amico nepali vive ormai negli Usa, dove sta cercando di far arrivare anche il resto della famiglia, un altro lavora per un americano in città, tanti vanno in India (con l’India c’è una frontiera aperta, una specie di Schengen subhimalayana) o in Qatar. Un commerciante indiano che ha trovato l’America a Katmandu, ci spiega che la prima fonte di reddito del Nepal sono i soldi inviati dagli emigrati che lavorano altrove. Non ho modo di controllare l’informazione ma sembra verosimile a tutti gli indigeni e a tutti i residenti cui la riporto. Viceversa, l’unica risposta a una microindagine sulle condizioni di vita del proletariato nepalese arriva da un taxista che parla piuttosto bene l’inglese: il fisso del taxista è bassissimo, 2000 rupie al mese (1 € allora valeva tra le 80 e le 83 rupie, oggi, al cambio ufficiale, siamo attorno alle 87) e con le percentuali (tipo bonus e mance) raggiunge al massimo le 4-5 mila rupie. Lavora cinque giorni la settimana, ma la sua giornata comincia alle 6 del mattino e termina alle 8 di sera: un bel 14 ore tonde tonde. E sta a Katmandu, dunque fa parte della crema della popolazione. Nelle regioni più povere di uno dei Paesi più poveri del mondo, più che vivere si sopravvive. Male.


(nella foto: il vero re del Nepal, sua maestà l'Everest)

06 novembre 2007

Parigi, 21 gennaio 2006

I giornali italiani tacciono. Ho provato a cercare notizie anche sull'Ansa. Inutil- mente. Katmandu è deserta, c'è scritto sul Figaro, i turisti sono vivamente sconsigliati di mettervi piede, ieri 120 arresti, l'altro ieri 100. Il coprifuoco è in vigore almeno da lunedì scorso, le comunicazioni via cellulare difficili per non dire impossibili. Più tardi proverò a chiamare mia sorella. Da qui all'8 febbraio, giorno in cui si svolgeranno le elezioni municipali-farsa, la situazione non può che peggiorare. Vorrei essere ancora là. La distanza è un dolore incolmabile, oggi.


(nella foto: nubi minacciose si addensano sullo stupa di Bouddanath)
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