05 settembre 2007

3 agosto 2007 - lago di Atitlan (Santiago, San Pedro e Tzununa, cioè colibrì in maya). Yo soy americano

“Mi tierra es casi un paraiso de todo lo lindo que es la naturaleza en esos lugares ya que no hay carreteras, no hay vehiculos. Solo entran personas” da “Me llamo Rigoberta Menchu y asi me nacio la conciencia”, prima edizione 1985.
Ed ecco la giornata del lago: appuntamento alle 8 meno un quarto all’hotel di Sergio. In realtà troviamo il nostro ad aspettarci già lungo la Calle Embarcadero (anche perché siamo leggermente in ritardo). Arriviamo alle lance al momento più opportuno per imbarcarci verso Santiago, la prima tappa, turistica, come dice Sergio. “Avete capito alla perfezione il concetto di tempo guatemalteco”, aggiunge, “elastico”. Poi comincia a raccontare di sé, pecora nera figlio di una pecora nera. La madre, quiché, rimase incinta di un mam (aveva altri due figli da un precedente marito, quiché). Bisogna sapere che i quiché ebbero la meglio sui mam a Xela, dunque, i mam sono gli sconfitti e i quiché i fieri conquistatori. In base a questa presunta superiorità quiché, i genitori della madre le offrirono solo due possibilità, entrambe terribili: scegliere di stare con il suo nuovo uomo mam e con il bambino, ma spogliarsi della sua appartenenza quiché e con questo rinunciare per sempre anche solo a vedere la sua famiglia oppure lasciare che fossero i nonni ad allevare il bambino nella più pura tradizione quiché. Furono la disgrazia e la fortuna di Sergio: non conobbe mai suo padre ma apprese dal nonno tutta la cultura e la mitologia maya. Quel sapere che oggi può dividere con noi.
Comincia così il suo racconto, anche per dirci che non approva la retorica attorno al povero maya, vittima dei Conquistadores e del razzismo da parte dei bianchi. Non che non siano verità, dice lui, ma anche tra maya e maya ci sono state lotte fratricide e c’è tuttora razzismo. La prova è la sua storia personale. Reietto fin prima di nascere e disprezzato all’interno della sua stessa famiglia perché al 50% mam. Subito dopo, però, ci tiene a precisare che ama la sua gente, soprattutto per via di quel celebre sorriso che, a dispetto di tutte le disgrazie che l’hanno colpita, continua a illuminarne il volto.
Sbarcati a Santiago Sergio comincia a spiegarci la concezione maya del mondo e il perché della facilità con cui i maya hanno accettato la religione cattolica. Per esempio la croce: per i maya il mondo stesso è una croce, una x per essere più esatti, nella quale i punti cardinali giocano un ruolo fondamentale. Al nord corrisponde il colore bianco, al sud, regno dei morti, il giallo, all’est, dove si leva il sole, il rosso, e all’ovest, dove il sole muore, il nero. Al centro il verde, simbolo della vita. Ci mostra alcune stoffe ricamate a mano e ci fa riconoscere alcuni elementi importanti nella cultura maya: il sole (cioè il maschio) e la luna (la donna), la piramide, il quetzal (uccello mitico, simbolo del Guatemala, oggi quasi estinto), gli zigzag orizzontali, ossia le montagne, quelli verticali, la pioggia, il fulmine. Poi ci fa vedere una sauna maya, un tuj, che affianca sempre un’abitazione. Qui, al momento del travaglio, entravano la luna sul punto di partorire, il suo sole e la levatrice. Alla madre la levatrice dava in braccio il bambino, mentre al padre toccava la placenta. Se il neonato era maschio il padre seppelliva la placenta all’interno della sauna, in modo che, quando a sua volta il figlio sarebbe diventato padre all’interno dello stesso tuj parte della sua anima si fondesse con quella del nuovo nato.
A Santiago, di etnia tzutuhil, le donne portano huipil (le casacche tradizionali delle donne guatemalteche) su cui sono riccamente ricamati un mucchio di uccelli (ogni etnia e ogni villaggio ha motivi e colori propri che ne caratterizzano il ricamo). Santiago è l’ultimo villaggio che si affaccia sul lago di Atitlan nel quale gli uomini portino ancora il costume tradizionale (si vede ancora qualche vecchio anche a San Pedro della Laguna).
Attraversiamo il mercato dove, come a Chichi, si vedono donne preparare le tortillas usando anche la calce viva. L’uso della calce era indispensabile prima dell’arrivo dei Conquistadores, cioè prima dell’arrivo delle mucche e del loro latte: attraverso la calce le tortillas assorbivano il calcio necessario al nostro organismo. Sergio ci mostra erbe, spezie e pil-pil (che non è, come pensiamo in Europa, peperoncino, quello viene aggiunto al preparato; il pil-pil di suo non è piccante), le varietà di fagioli e di mais (di quattro colori, gli stessi dei punti cardinali, bianco, rosso, giallo e nero) e poi saliamo alla chiesa.
All’interno un miscuglio di simboli cattolici e maya (le spighe sull’altare, per esempio, che già abbiamo visto riprodotte sulla facciata della chiesa della Merced ad Antigua. Il mais per i maya è un dio e gli uomini discendono dal mais. Cfr. “Hombres de mais” di Miguel Angel Asturias). Ci sono santi vestiti con veri abiti e un Gesù a cavallo che calza dei Santiago. La Chiesa è piena, quasi esclusivamente di donne e donne sono pure quante officiano il rito. All’interno della chiesa una targa ricorda padre Stanley Francis Rother, scomodo missionario dell’Oklahoma, che aveva fondato una scuola per gli indigeni e che, perciò, venne considerato, evidentemente, un pericolosissimo rivoluzionario e trucidato, in chiesa, nel 1981, dagli squadroni della morte. L’educazione (o piuttosto la mancanza di istruzione) è una delle chiavi di volta dell’oppressione in Guatemala. Al termine della giornata, a Tzununa, abbiamo incontrato un poeta militante della causa dei popoli indigeni che si batte, tra le altre cose ma quasi in primo luogo, per il diritto a un’istruzione pubblica, gratuita e laica per tutti. Come del resto, ci dice, sta scritto nella Costituzione guatemalteca. Analfabetismo, alcolismo, machismo, oblio dei costumi e del sapere tradizionali: i maya sono affetti dalle stesse malattie che distruggono tutte le culture e i popoli del mondo. Il nonno di Sergio faceva un buco nella terra con un bastone e vi piantava nove semi: tre di mais, tre di fagioli e tre di zucca. Questo semplice gesto garantiva tre raccolti e la protezione del terreno al tempo stesso. Oggi tutti tagliano alberi e nessuno ne pianta. La montagna vive dove ci sono le piantagioni di caffè e muore dove si fa terra bruciata per piantare altro mais. Si vedono qua e là le pendici del vulcano, San Pedro o Atitlan che sia, spelacchiate: senza gli alberi a fare da argine le inondazioni sono devastanti e distruggono case e raccolti. È successo a Tzununa, l’ultimo villaggio che visitiamo, dove ancora si vedono i segni lasciati dall’acqua. A Santiago, però, ci sono 30 diverse chiese per altrettante confessioni religiose; sempre meno cattolici, sempre più protestanti, sempre più fanatici. È uno dei nuovi volti del colonialismo americano (“non dite americano, per favore. Io sono americano. Dite statunitense” continua, a ragione, a riprenderci Sergio), insieme ai MacDonald’s e alla Coca Cola (“gli indios la danno anche ai neonati, nei biberon”, ci dice), apparentemente meno violento dell’intervento Cia che costò ai guatemaltechi 40 anni di guerra e che continua a costargli una classe dirigente dispotica (“il Guatemala è sempre dominato da una ventina di famiglie, Sinibaldi e Co. e Sinibaldi”). Probabilmente altrettanto pericoloso.
San Pedro de la Laguna, intanto, villaggio incantevole deturpato da costruzioni mostruose e dominato da un’orribile chiesa a torta nuziale che appartiene a chissà quale congregazione, è diventato nei detti popolari San Pedro de la locura: che attiri fricchettoni da tutto il mondo può sembrare pure simpatico, ma lo diventa un po’ meno se si constata una sospetta forma di nuova ricchezza locale, che potrebbe essere legata al narcotraffico.
D'altra parte il lago, grazie a una brillante idea della Pan American World Airlines, con enormi interessi in Guatemala nel passato, e con l'appoggio dei governanti locali, ora è popolato solo da tre tipi di fauna: un delizioso pesciolino autoctono, per ora sopravvissuto all’invasione dei black bass, i granchi, che grazie al guscio non sono preda dei black bass, e i black bass stessi, introdotti appunto su proposta della Pan American, carnivori che hanno distrutto quasi tutte le altre forme di vita nell’Atitlan. C’è di che avercela con i gringos, no? Hasta la victoria, compañero Sergio.

Nota a margine numero due: ! Aerosol Spiritual de Tapa Boca per aspergere le foto e fare un incantesimo che renda muti. Visto nella casa di una confreria (due unite, a dire il vero: San Gregorio e San Giuseppe) a Santiago sul lago di Atitlan.


(nella foto: interno della chiesa di Santiago Atitlan)

2 commenti:

Gianluca ha detto...

che diamine, di questo passo mi tocca smettere di lavorare per un giorno e dedicarmi alla lettura dei tuoi interessantissimi racconti. "interessante" non è una parola che amo particolarmente, però la intendo seriamente, è un articolo, un documento, una impressione e riflessione di viaggio, privilegi - anche giustamente - le considerazioni culturali e sociali. del resto, alla poesia ci penso io...
spero tu abbia preso nota durante il viaggio delle miriadi di notizie e dettagli che scrivi...se così non fosse, complimenti per la memoria elefantiaca! buon finesettimana cara virg. bonaventura.

virginie ha detto...

interessante è una parola che non piace neppure a me. d'altro canto capisco che, in questo caso, è il miglior complimento che potessi farmi. i miei racconti non sono granché divertenti qui, né particolarmente poetici, ne convengo. perciò, querido, grazie dei complimenti: se non altro il mio unico lettore mi gratifica. baci baci baci

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